Intelligenza Terrena
Tre modi in cui l’IA può aiutare l’Italia a custodire ciò che conta: memoria, comunità, e terra.
Un caro benvenuto ai nuovi arrivati alla community: francesca.tavassi, mattiaprincipei2k, fmoretto71, matteobianco77juma, lanciotti.design, valeriocipolladigiovanni, pierinopipetto, mattiafumarola6, sara.bordignon02, charlottezanetti24, luigigabriele, amaranth77, ebravi, giovanniferrero0, eraldo.minella, tavone+newsletter, rdonzelli, lozoodisimona, info.calandri, sertaf54, mcatalano95. Welcome!!!
Ho pensato di dedicare questo numero di IA e Dintorni a temi e soluzioni IA pratiche e di interesse nazionale. Un opportunitá per guardare quello che ci circonda in Italia e pensare come far leva sull’IA per risolvere le varie problematiche.
E se il Sud fosse il primo a usare l’intelligenza artificiale per vigilare sui soldi pubblici?
In un’Italia dove l’intelligenza artificiale viene perlopiù raccontata come minaccia, ai posti di lavoro, alla verità, alla democrazia, esiste un angolo ancora poco esplorato: l’uso civile dell’AI come strumento di trasparenza nei territori più fragili del Paese.
Non servono server potenti né start-up milionarie. Servono open data, buonsenso e un po’ di volontà. I dati ci sono già: bandi, bilanci, visure camerali, determine, spese minute. La tecnologia anche: modelli predittivi semplici, strumenti open source, dashboard intuitive. E allora perché non fare il primo passo proprio dove ce n’è più bisogno?
Perché non testare questo modello nel Sud Italia, dove l’opacità amministrativa, le infiltrazioni e la rassegnazione convivono da troppo tempo?
Immaginiamo un piccolo comune in Calabria o in Basilicata, 4.000 abitanti, una stazione dei carabinieri che fatica a tenere il passo, e una popolazione che da anni osserva tutto ma parla poco. In quel comune, un gruppo di cittadini potrebbe – con un minimo di supporto – implementare un prototipo di “IA civica”: un sistema che analizza dati pubblici e segnala automaticamente anomalie statistiche nelle gare d’appalto, nei bilanci, nei pagamenti.
Non per accusare. Non per sostituirsi a magistratura o giornalismo. Ma per osservare meglio, per aiutare la comunità a capire dove stanno i nodi, dove serve attenzione, dove qualcosa non torna.
È un’idea semplice: usare strumenti come quelli sviluppati da Openpolis (già attivi nel mappare il rischio corruzione) e collegarli a piattaforme come GlobaLeaks, già in uso presso ANAC e Transparency International per raccogliere segnalazioni anonime. In mezzo, un motore AI leggero, nemmeno un algoritmo sofisticato, basterebbe una regressione lineare su base comunale, per incrociare i dati e restituire alert automatici.
Tutto pubblico. Tutto documentabile. Tutto replicabile.
Il Sud potrebbe diventare un laboratorio di trasparenza distribuita, un modello per tutta l’Italia. Non attraverso grandi task force, ma attraverso reti civiche intelligenti, coordinate da università, giornalisti e attivisti locali. Piccole cellule digitali di sorveglianza democratica. Non occorre molto: due laptop, un data analyst, accesso agli open data comunali.
Serve solo la volontà politica (o almeno, l’assenza di ostacoli istituzionali).
Nel momento in cui si parla tanto di PNRR, fondi europei, rigenerazione, perché nessuno sta pensando a una rigenerazione civica attraverso i dati?
Perché non investire in una trasparenza tecnologica di prossimità, che non ha bisogno di droni, né di telecamere, ma solo della forza del dato incrociato con l’intelligenza umana?
Mi chiedo spesso perché il Mezzogiorno venga descritto sempre come un corpo da risanare e mai come una testa da ascoltare. Invece proprio qui si potrebbe aprire una nuova stagione della cittadinanza: non più basata sul sospetto, ma sulla conoscenza. Non sulla denuncia isolata, ma sull’elaborazione collettiva di segnali.
Un algoritmo non cambia una cultura. Ma può cambiare le condizioni in cui una cultura cambia.
E allora, se sei un sindaco, un attivista, un docente, un giornalista, un cittadino che non ha smesso di voler capire: perché non provare? Perché non testare questo modello proprio qui, nel Sud?
Non ci sará da salvare il mondo ma di sicuro ci sará da vederlo meglio.
Prima che scompaiano: perché serve un’intelligenza artificiale al servizio della memoria italiana
C’è un’Italia che sta sparendo senza far rumore. Non quella dei grattacieli, delle start-up o dei ministeri, ma quella delle sedie fuori casa al tramonto, delle botteghe chiuse “solo per oggi”, delle parole che cambiano ogni 15 chilometri. È un’Italia che non fa notizia, che non ha voce nei talk show, ma che tiene in piedi, silenziosamente, la parte più vera del Paese.
Borghi interi stanno svuotandosi. Le scuole chiudono, gli uffici postali diventano tabaccherie, le piazze si riempiono solo il giorno del mercato. E con ogni casa che resta vuota, con ogni bottega che abbassa la serranda per l’ultima volta, se ne va anche un modo di parlare, di cucinare, di vivere.
Il vero problema? Quasi nulla di tutto questo è stato documentato. Le microculture italiane, dialetti, mestieri, memorie orali, sono state tramandate per secoli a voce, a gesti, per prossimità. Ma il mondo si è allontanato. I figli vanno via. I nipoti non chiedono più. E chi custodisce queste memorie è spesso troppo stanco, troppo solo, o semplicemente convinto che “non interessi a nessuno”.
Eppure, se solo guardassimo con attenzione, scopriremmo che le tecnologie che spesso temiamo, quelle dell’intelligenza artificiale, potrebbero diventare proprio ciò che ci serve per conservare tutto questo. Per non lasciarlo scivolare via.
Non parliamo di AI generativa o di robot che scrivono poesie. Ma di strumenti silenziosi e concreti, già oggi a disposizione, e quasi mai usati nel contesto giusto. Ecco qualche esempio.
Un semplice modello di riconoscimento vocale potrebbe essere addestrato per trascrivere i dialetti locali. Non solo quelli “standardizzati”, come il siciliano o il veneto, ma anche varianti di pochi quartieri, magari parlate solo da una manciata di anziani. Oggi esistono già software capaci di distinguere accenti con sorprendente precisione. Con i giusti dataset, raccolti magari da studenti o biblioteche, potremmo creare archivi vocali vivi, che un giorno potranno essere ascoltati e studiati da chi verrà dopo.
La computer vision, che usiamo per riconoscere volti o targhe, potrebbe servire a catalogare tecniche artigianali in via d’estinzione. Come si impugna un ferro da calza? Che movimenti fa un falegname di 80 anni mentre incide a mano? Non basta filmarlo: serve un sistema che analizza, decodifica, e collega. Che capisca che quel gesto ha valore, e lo descriva, lo classifichi, lo protegga.
Persino le IA di tipo narrativo, quelle che usiamo per tradurre o sintetizzare, potrebbero giocare un ruolo importantissimo. Immaginate un sistema che traduce automaticamente un’intervista fatta in dialetto in italiano corrente. Che crea una mappa delle espressioni tipiche di un territorio, collegandole alla storia migratoria della zona, o all’influenza linguistica di un convento, di un presidio borbonico, di un’antica via commerciale.
Ma l’IA può fare ancora di più. Può identificare correlazioni culturali invisibili, che la memoria umana da sola fatica a mettere insieme. Collegare, ad esempio, un canto popolare in un paese dell’Appennino modenese a una melodia simile raccolta nel Cilento. O riconoscere che certe parole arcaiche sono sopravvissute in contesti geografici completamente diversi, segno di radici comuni.
E poi, c’è la cosa più semplice ma forse più importante: l’IA può ascoltare tutto. Non giudica, non si annoia, non dimentica. Si può mettere una scatola in una piazza, chiedere alle persone di raccontare la loro infanzia, la loro ricetta del pane, la storia di un muro, e lasciare che il sistema registri, trascriva, analizzi e conservi. Tutto ciò che serve è una comunità disposta a parlare. E un sistema pronto a ricordare.
Perché questa idea non diventa politica pubblica?
Perché nessun ministero ha ancora pensato di creare un’infrastruttura nazionale per la memoria orale e culturale? Perché l’IA viene finanziata solo se serve all’industria, ma non se serve alla cultura? Eppure, con costi bassissimi, potremmo avviare una rete capillare: ogni comune con meno di 5.000 abitanti riceve una “scatola della memoria”, un kit AI semplice, con microfono, software, istruzioni. Ogni biblioteca può ospitare giornate di raccolta, ogni scuola può partecipare al processo. Basta poco. Ma quel poco salverebbe un intero mondo.
Perché in fondo, l’Italia non è solo fatta di capolavori. È fatta di dettagli. E se perdiamo quelli, perdiamo tutto.
L’intelligenza della terra: perché l’agricoltura italiana ha bisogno di AI (anche nei campi piccoli)
Ogni volta che si parla di intelligenza artificiale in Italia, si finisce a discutere di mestieri che spariranno, algoritmi che ci controlleranno o software che scrivono testi da soli. Ma quasi mai ci si ferma a pensare a un campo, letteralmente: un campo di grano, una vigna, un frutteto, un pascolo.
Eppure è lì che l’IA può fare la differenza più urgente e più gentile: non sostituire il lavoro umano, ma alleggerirlo. Non renderlo più astratto, ma più preciso. Non togliergli senso, ma restituirgli respiro.
La scorsa settimana ho letto un articolo su La Nazione su quello che succede a Cesa, una tenuta sperimentale in provincia di Arezzo. Lì Terre Regionali Toscane, insieme a università e operatori agricoli, stanno testando cosa succede quando porti nei campi non solo trattori e badili, ma anche droni, sensori e modelli predittivi. Si chiama Agrofutura, ed è già realtà.
Questa, però, non è una storia solo per chi ha 100 ettari di terra. È una storia che riguarda anche l’azienda agricola familiare, il pastore con 40 pecore, il frutticoltore con tre ettari in collina. È una storia di potenziale democratizzato.
Perché l’intelligenza artificiale, se usata bene, non è high-tech per pochi: può essere un alleato semplice, economico e silenzioso. Come una voce che ti suggerisce dove irrigare, quando raccogliere, se c’è un fungo che si sta diffondendo senza che tu te ne accorga.
Penso a un piccolo vigneto che riceve, ogni tre giorni, una notifica: “Le ultime immagini termiche indicano uno stress idrico localizzato nella fascia centrale. Una irrigazione mirata ridurrebbe il rischio di acinellatura del 30%”. È un consiglio tecnico, sì. Ma è anche un atto di cura. È il contadino che torna a essere osservatore attento del proprio campo, solo che stavolta lo fa con un radar a disposizione.
Oppure penso agli animali: l’IA può leggere i dati di temperatura, postura, comportamento e suggerire che qualcosa non va. Prima ancora che si trasformi in malattia, perdita economica, sofferenza. È come avere un veterinario sempre presente, discreto, non invasivo.
L’intelligenza artificiale può anche aiutare chi coltiva a decidere meglio. Non solo quanto seminare, ma cosa, dove e perché. Incrociando i dati sui raccolti passati, i prezzi al mercato, la composizione del suolo e le previsioni meteo, un piccolo algoritmo può rispondere alla domanda che ogni agricoltore si fa ogni anno: “conviene piantare fagioli o cipolle?”. Con numeri, non con scommesse.
E poi c’è la dimensione comunitaria. Se più aziende agricole decidessero di condividere i dati raccolti, anche in forma anonima, potremmo costruire delle mappe viventi del territorio: “In Val di Chiana le albicocche stanno maturando con dieci giorni d’anticipo.” “Nel Mugello è partita una recrudescenza di peronospora nei pomodori.” L’IA, in questo caso, diventa un sistema nervoso distribuito, che ascolta, collega, protegge.
Il bello è che tutto questo non è fantascienza. Esistono già sensori da 100 euro, app con modelli predittivi preimpostati, droni commerciali capaci di mappare un terreno in mezz’ora. Servono formazione, sì. Ma soprattutto serve una narrazione diversa: smettere di pensare che l’IA sia solo una cosa da città, da ingegneri, da uffici. L’IA può essere un attrezzo agricolo. Né più né meno.
Se la Toscana, che ha già una cultura profonda del territorio, decidesse di puntare su questo, davvero, potrebbe diventare la prima regione italiana dove la tecnologia non sostituisce il contadino, ma lo rafforza. E dove l’agricoltura torna a essere un mestiere non di fatica cieca, ma di precisione, consapevolezza, dignità.
Ci serve un’intelligenza artificiale che sappia stare nel fango. Che non parli solo in inglese tecnico, ma che impari il lessico contadino. Che non dica “ottimizzazione della filiera”, ma “hai risparmiato 500 litri d’acqua questa settimana, bravo”.
Un’IA che capisca che coltivare non è solo produrre. È anche abitare un pezzo di mondo, con responsabilità e misura.
Amico mio, sapessi quanto abbiamo provato a tenere le nostre ricerche dell'Europa occidentale prima di arrenderci all'impossibilità e trasferirle in un altro continente.
L'unica cosa che può essere fatta da noi è la reiterazione di quanto già conosciuto, ed anche in quel caso districandosi fra tonnellate di divieti che rendono impraticabile qualsiasi ricerca di frontiera.
Sì, si possono fare piccole cose come il monitorata fiscale e della spesa, ma in sostanza significa costruire giocattoli rinunciando al progresso vero.
Uno degli articoli italiani più intelligenti che abbia letto nell'ultima settimana. E leggo parecchio...